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L’obiettivo di questo articolo è la descrizione della struttura della materia attraverso l’elencazione della maggior parte delle teorie formulate su di essa negli ultimi secoli. Per spiegare le ipotesi relative alla costituzione elementare della materia saranno citati alcuni degli esperimenti eseguiti dagli scienziati.
Fin dall’antichità l’uomo ha cercato di dare delle risposte alle domande riguardanti la costituzione della materia: Di che cosa è fatta?, Fino a quale punto è possibile suddividerla?
Su questo secondo aspetto gli antichi Greci avevano due teorie differenti: alcuni affermavano la sua infinita divisibilità, altri ritenevano che fosse costituta da unità elementari. Si trattava, comunque, di teorie filosofiche, senza alcuna indagine scientifica attendibile. Tra i modelli ipotizzati è interessante citare quello creato da Democrito, il quale affermò che tutta la materia era costituita da un’infinità di unità indivisibili, gli atomi (che in greco significa indivisibile), privi di proprietà qualitative, sapore, odore, colore, ma caratterizzati da proprietà quantitative, cioè la grandezza, la forma e la posizione.
L’ipotesi atomistica di Democrito venne poi abbandonata ma è stata ripresa con altre modalità in tempi recenti.
Modern models
1. Rutherford's experiment
2. Rutherford's model
1. Bohr's atomic model
Lo studio della materia, con un metodo scientifico moderno, fu avviato da Antoine Lavoisier con la legge della conservazione della massa, seguito da Joseph Proust con la legge delle proporzioni definite e da John Dalton con la legge delle proporzioni multiple e con la sua teoria atomica (1803), secondo la quale la materia era costituita da un gran numero di particelle indivisibili, cioè gli atomi, fra i quali quelli di uno stesso elemento sono uguali fra loro, hanno uguale massa e non possono essere né creati, né distrutti.
Con la scoperta dei raggi X, nel 1895, di Wilhelm Roentgen, e con l’effetto fotoelettrico di Albert Einstein, gli scienziati capirono che si doveva rivedere il concetto di atomo. Nel 1904 J. J. Thomson attraverso lo studio dei raggi catodici, scoprì gli elettroni, cioè particelle con massa piccolissima e carica negativa, che venne calcolata da Robert Millikan, e anche altre particelle di carica opposta e di massa maggiore. Sulla base di questi risultati nel 1906 Thomson ipotizzò che l’atomo non fosse indivisibile, ma costituito da una struttura sferica positiva dentro la quale erano dislocati equamente gli elettroni, tanto da rendere complessivamente neutro l’atomo.
Il modello di Thomson fu messo in crisi dagli esperimenti effettuati da Ernest Rutherford, e dai suoi allievi Geiger e Marsden, con le particelle alfa. Infatti Rutherford, bombardando con queste particelle una sottile lamina d’oro, notò che la maggior parte di esse mantenevano la direzione di partenza, altre venivano leggermente deviate e una piccolissima percentuale veniva respinta. Se il modello di Thomson fosse stato valido, si sarebbe osservata la stessa deviazione per ogni particella, perché, secondo lui, le cariche positive e negative dovevano essere disposte in modo omogeneo all’interno dell’atomo.
Secondo questi dati, contrastanti con il modello di Thomson, Rutherford ipotizzò che l’atomo fosse costituito da un nucleo, nel quale risiede la maggior parte della massa atomica e la carica positiva (giustificando la deviazione di alcune particelle alfa a causa della repulsione), e dagli elettroni che gli ruotano attorno velocemente per mantenere il proprio equilibrio fra l’attrazione esercitata dal nucleo e la reciproca repulsione.
Nel 1920 egli assegnò al nucleo atomico il nome di protone, affermando che esso poteva essere formato anche da più protoni, e che in ogni atomo il numero dei protoni e degli elettroni doveva essere uguale. Questo modello era in disaccordo con le leggi della teoria elettromagnetica classica, in quanto l’elettrone ha una carica e, quindi, essendo accelerato, avrebbe dovuto irradiare energia, cadendo in pochi istanti sul nucleo, fenomeno che avrebbe dovuto comportare l’emissione di tutte le frequenze nel passaggio dal suo livello al nucleo. Queste ipotesi non trovano riscontro nella realtà in quanto gli atomi sono stabili perché non hanno una loro frequenza di emissione.
Nel 1913 Niels Bohr rielaborò il modello ipotizzato da Rutherford, prendendo spunto dai risultati di Max Planck e Albert Einstein. Il primo aveva introdotto, al di fuori della fisica classica, il concetto di quantizzazione, in base al quale una grandezza può assumere solo certi valori permessi e l’energia non viene emessa in modo continuo ma in quanti; il secondo estese il concetto di quanto alla luce, dicendo che essa era costituita da quanti, cioè fotoni. Complessivamente il modello atomico di Bohr si basava su due principi: la quantizzazione delle orbite, in base al quale l’elettrone poteva occupare solo determinate orbite, e la quantizzazione dell’energia, in base al quale, quando un elettrone percorre una certa orbita, non emette o assorbe energia, a meno che transiti da un’orbita a un’altra.
Questo modello però aveva dei difetti perché non poteva essere applicato agli atomi con più di un elettrone e non riusciva a spiegare, secondo dei criteri, la distribuzione nelle orbite degli elettroni. Bohr infatti trattava sempre gli elettroni come delle particelle classiche a cui poteva applicare le leggi della meccanica.