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Che la Chimica abbia contribuito, sin dai tempi più remoti, allo sviluppo scientifico e tecnologico dell’umanità è opinione comune. Tuttavia, riflettendoci, si può scoprire che essa ha spesso avuto un ruolo determinante anche nella crescita culturale e nei cambiamenti sociali dell’uomo; qualche volta ne ha anticipato o accompagnato i passaggi cruciali, qualche altra li ha seguiti e integrati. Gli esempi che seguono, mostrando parecchie di queste interazioni, possono essere particolarmente utili, specie se si considera la tendenza generale a separare e isolare, l’una dall’altra, la cultura umanistica da quella tecnico-scientifica, che invece dovrebbero sempre integrarsi a vicenda. Essi, inoltre, possono ispirare nei giovani lettori di questa rivista il desiderio di approfondire gli avvenimenti che qui saranno soltanto accennati e di rileggere i loro libri di letteratura, storia, filosofia, storia dell’arte, per cercarvi nuove conferme degli stretti rapporti che hanno legato queste discipline a quelle scientifiche, e alla Chimica in particolare.
Inizialmente la Chimica non è stata vista come la scienza rigorosa e matura che tutti conosciamo, ma come un insieme di attività di osservazione e sperimentazione che hanno avuto lo scopo di capire la composizione degli oggetti materiali e studiarne e riprodurne le trasformazioni e gli scambi di energia che le accompagnano.
La pratica, più o meno consapevole, di manipolare sostanze per trasformarle iniziò, probabilmente, prima che l’uomo imparasse a trascriverne le procedure e prendere nota degli effetti. Come risultato di tentativi condotti senza alcun schema prestabilito, cambiando a caso l’ordine delle operazioni, si misero a punto veri e propri processi chimici per l’estrazione di sostanze coloranti da minerali, piante, insetti, molluschi, per la preparazione di bevande fermentate o di profumi, belletti, unguenti, per la concia delle pelli o la sgrassatura e la coloritura dei tessuti.
Il nome stesso dei Fenici è legato, attraverso il vocabolo greco = rosso, alla porpora che essi ottenevano, attraverso un complicato processo, messo a punto intorno al 1600 a.C., di trasformazione chimica della secrezione di un mollusco marino. Il fatto che, per produrne un grammo occorresse trattare circa 14000 molluschi spiega perché la porpora fosse così preziosa e destinata a colorare soltanto le vesti delle persone di rango: i senatori e poi gli imperatori romani e infine i cardinali della chiesa cattolica.
Il fuoco passò da strumento passivo di sopravvivenza a protagonista dello sviluppo tecnologico: l’uomo imparò a ottenere temperature sempre più alte che gli permettessero, non solo di preparare oggetti di terracotta o vetro, ma anche, a partire dal IV millennio a.C., di produrre i metalli dai loro minerali. Il primo fu il rame, grazie a un processo tipicamente chimico: mescolata con il carbone ed esposta al monossido di carbonio prodotto nella combustione, la malachite verde azzurra [CuCO3Cu(OH)2] era ridotta chimicamente a rame metallico, dal caratteristico colore rosso dorato. Esso fu ampiamente usato per produrre utensili e armi, fino a quando la contaminazione, prima casuale e poi intenzionale, dei suoi minerali con arsenico o stagno consentì di ottenere una lega, molto più rigida e resistente del rame, e quindi più adatta alla produzione di armi. La lega prese il nome di bronzo e la sua importanza è testimoniata dal nome che si diede ad un intero periodo della storia dell’uomo: l’età del bronzo. La guerra di Troia fu combattuta tra due eserciti dotati di armi di bronzo e la ricerca dello stagno spinse i Fenici a navigare fino alle costa della Cornovaglia e probabilmente indusse Giulio Cesare a progettare l’invasione della Britannia.
Nata da un processo chimico, l’età del bronzo fu soppiantata grazie a un altro processo chimico, nel quale fu prodotto ferro metallico, o meglio acciaio, per arrostimento in una fornace dei suoi minerali mescolati a carbone. Iniziò l’età del ferro, nel corso della quale le popolazioni dotate di armi in ferro ebbero la meglio su quelle che ancora disponevano di armi in bronzo: per esempio, intorno al 1100 a.C., le tribù doriche invasero la penisola greca scacciandone i Micenei, mentre i Filistei invasero la terra di Canaan sopraffacendo gli israeliti, fino a quando Re Saul non fornì loro armi in ferro.
Intorno al VII secolo a.C. nacque e si sviluppò a Mileto, colonia greca dell’Asia Minore, la filosofia occidentale, il cui primo scopo fu quello di indagare i fenomeni naturali, per scoprire la composizione ultima dei corpi materiali e la causa delle loro trasformazioni. Il tentativo di risolvere questi problemi tipicamente chimici portò alla messa a punto e alla elaborazione di quegli schemi logici e razionali che poi sarebbero stati utilizzati nel campo dell’etica, della politica, della ricerca delle finalità dell’uomo e della Natura.
Nel III secolo d.C. si sviluppò ad Alessandria d’Egitto, centro del cosmopolitismo ellenista, l’alchimia, l’arte di trasformare le sostanze, nella quale si fusero tecnologia egizia, filosofia greca e misticismo orientale. A prescindere dalla effettiva possibilità di realizzarli, i tentativi degli alchimisti di trasmutare i metalli vili in oro o di creare l’elisir di lunga vita, permisero loro di accumulare un notevole patrimonio di conoscenze, procedure e strumentazioni, che sarebbero poi state trasmesse ai futuri chimici. Gli Arabi continuarono questa tradizione conservando e ampliando le conoscenze, che trasmisero intatte agli Europei, quando costoro si svegliarono dal torpore medievale. Nei suoi numerosi scritti, Alberto Magno riporta moltissime informazioni sull’alchimia, per cui egli è ritenuto un grande alchimista ed è quindi diventato il santo protettore dei chimici.
La più importante informazione che gli Arabi trasmisero dalla Cina all’Europa è probabilmente la ricetta della preparazione della polvere da sparo, una miscela di salnitro, zolfo e carbone, il cui uso sconvolse le tecniche di combattimento e quindi gli equilibri politici e sociali europei. Un’altra reazione chimica era stata utilizzata come strumento di guerra: il fuoco greco (una miscela di calce viva, nafta e zolfo che brucia sull’acqua) salvò per ben due volte Costantinopoli dall’assedio Arabo, preservando l’Europa dalla loro invasione.
Il misticismo ereditato dall’oriente, unito al segreto del quale volutamente si circondavano, fece sì che gli alchimisti fossero guardati con sospetto dalla gente comune, specie perché molti di loro utilizzavano le proprie conoscenze chimiche e abilità tecniche per truffare il prossimo. Questo sospetto, che sfociava in aperta persecuzione nei periodi più oscuri, in occasione di guerre, carestie, pestilenze, è testimoniato anche in parecchie opere letterarie. Nella Divina Commedia, Dante colloca nella decima bolgia dell’Inferno, tra i falsari, gli alchimisti Griffolino d’Arezzo e Capocchio da Siena, mentre in uno dei Racconti di Canterbury (1387), Geoffrey Chaucer fornisce una descrizione negativa dell’alchimista, considerato un truffatore dedito alle pratiche oscure a danno del prossimo. Infine, nell’opera teatrale l’Alchimista (1610) di Ben Jonson, il nome del protagonista Subtle (in inglese, scaltro), testimonia ancora una volta il giudizio non lusinghiero dell’autore.
All’inizio del ‘500, uno strano personaggio, che si faceva chiamare Paracelso, propose una profonda riforma della pratica medica, contemporanea a quella religiosa portata avanti da Lutero, invitando i medici a studiare attentamente malati e malattie, piuttosto che applicare ciecamente le pratiche tradizionali. Le sue nuove terapie erano basate su medicamenti estratti, con procedure chimiche, dalle piante ma, soprattutto, dai minerali.
I successi ottenuti dalle terapie di Paracelso, stimolarono i medici a studiare più attentamente le sostanze chimiche, in particolare i sali, aumentando la popolarità e le conoscenze della scienza Chimica. Dopo la scoperta di una copia integrale del manoscritto del De Rerum Natura di Lucrezio (1417), ristampato nel 1473, la sua lettura ripropose il problema della composizione delle sostanze e delle cause delle loro trasformazioni, riaccendendo il dibattito tra i sostenitori della filosofia aristotelica dei principi e degli elementi e quelli della struttura particellare della materia, i quali, piuttosto che pensatori, erano sperimentatori. Fu ben presto evidente che la filosofia non era in grado, da sola, di risolvere questo problema, ma che la chiave risiedesse nel nuovo modo chimico di osservare e valutare i fenomeni naturali.
Già all’inizio del ‘600 Jean Beguin aveva chiaramente distinto tra Fisica, che studia il movimento dei corpi, e Chimica, che ha il compito di separarli nei loro componenti e riunirli per formare altri corpi. Tuttavia, la Chimica non si affermava ancora come scienza indipendente, mantenendo una posizione ancillare, soprattutto perché non si basava su formule matematiche come quelle che Keplero, Galilei e Newton avevano elaborato per astronomia e fisica. Lo stesso Newton, nel quesito 31 del suo trattato sull’ottica, invitava i chimici ad applicare gli stessi principi e strumenti matematici con i quali lui aveva descritto con successo i moti dei corpi microscopici sulla terra e nell’Universo, alle forze che causano le reazioni chimiche. Il problema risultò di non facile soluzione perché, mentre l’attrazione gravitazionale è universale e coinvolge tutti i corpi, i reattivi hanno un comportamento più bizzarro: molti non reagiscono tra di loro, altri lo fanno spontaneamente, in certi casi, addirittura, con estrema violenza.