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Così, al termine attrazione fu preferito quello antropomorfo di affinità, per indicare l’attrazione tra due corpi microscopici che causava una reazione: nel 1775 Tornbern Bergman, basandosi su osservazioni sperimentali, formulò l’ipotesi che la reazione o la decomposizione delle sostanze fosse causata dalle affinità elettive che si instauravano tra di loro. Affascinato da questa ipotesi il poeta tedesco Johann Wolfgang von Goethe usò la metafora chimica nel romanzo Le affinità elettive, per attribuire la fine di un matrimonio all’intervento di un altro uomo e di un’altra donna. Mutuato dal linguaggio comune, il termine chimico tornò alle sue origini per spiegare la doppia decomposizione dei sentimenti.
Nel XVIII secolo la chimica seppe conquistarsi il riconoscimento di scienza indipendente, grazie a una vera e propria rivoluzione nella sua impostazione teorica e nelle sue procedure sperimentali: l’uso sistematico di determinazioni quantitative di grandezze fisiche come peso, volume temperatura e pressione, consentì di esprimere numericamente i risultati degli esperimenti e formulare le prime leggi empiriche sulla composizione della materia e sui rapporti di combinazione.
La coincidenza di tempi e luoghi tra questa rivoluzione e quella francese è certamente non casuale e testimonia come l’evoluzione del pensiero chimico fosse ormai pienamente integrata nell’ambiente culturale e sociale del tempo. Addirittura, l’inglese Edmund Burke mise in relazione le idee radicali e materialiste di Joseph Priestley, e la natura incontrollabile dei gas da lui scoperti e studiati, con il clima selvaggio che in Francia aveva portato al patibolo perfino la Regina, raccomandando che, almeno in Gran Bretagna, si ponesse un freno alla Rivoluzione chimica [1].
L’identificazione e l’utilizzazione delle sostanze gassose consentì di costruire finalmente le tanto sognate macchine per sollevarsi da terra, e l’entusiasmo per questa realizzazione è mostrata, per esempio dall’Ode al Signor di Montgolfier, scritta dal poeta italiano Vincenzo Monti.
L’ottocento chimico si aprì con la diffusa utilizzazione della pila di Volta per decomporre le sostanze nei loro costituenti elementari, mai prima individuati. Campione di questa tecnica fu l’inglese Humphry Davy che, nel giro di una settimana, isolò due nuovi elementi, potassio e sodio, e, nel giro di un anno, anche calcio, bario e stronzio. In riconoscimento dei suoi meriti scientifici, ottenne un lasciapassare per attraversare un paese nemico e recarsi a Parigi, per ricevere, da Napoleone in persona, una medaglia d’oro.
Davy non era soltanto un grande chimico, ma anche un oratore affascinante che teneva le sue conferenze alla Royal Institute di Londra, davanti a un pubblico profano numeroso e interessato: liberatasi dalle sue origini misteriose, e dal suo linguaggio oscuro, la chimica era ormai la scienza più affascinante. Il poeta J. T. Coleridge cercava nel linguaggio scientifico di Davy un arricchimento al proprio bagaglio poetico di metafore [2], mentre Mary Shelley concepì il personaggio di Frankenstein dopo aver assistito agli esperimenti di Davy sull’elettricità. Il mondo letterario aveva infatti cambiato atteggiamento: Sherlock Holmes, non sarà più l’alchimista imbroglione che viveva in stanze fumose, ma uno scienziato moderno che accoppiava a prodigiose capacità logiche un’accurata conoscenza delle moderne tecniche di Chimica Analitica [3].
Contemporaneamente a quello di Davy, fiorì in Inghilterra il genio di John Dalton che, partendo dalle leggi quantitative sui rapporti di combinazione delle sostanze, diede consistenza scientifica alla teoria atomica dei filosofi greci, attribuendo le differenze tra gli individui chimici, gli elementi, alle differenze in peso dei loro atomi. Pur rimanendo invisibili, queste particelle elementari si differenziavano, non più per forma e dimensioni, parametri non valutabili, ma per una precisa grandezza fisica quantificabile, la loro massa. Molto prima che i fisici dimostrassero l’esistenza dell’atomo e ne chiarissero la struttura, i chimici, sulla base di prove sperimentali sempre più abbondanti e convincenti, avevano acquisito la consapevolezza che la materia non potesse che essere costituita da particelle elementari. Allo stesso modo, le leggi dell’elettrolisi scoperte da Michael Faraday (1834) e la teoria della dissociazione elettrolitica enunciata da Svante Arrhenius (1884) portarono all’inevitabile conclusione che anche la carica elettrica fosse costituita da entità discrete che, solo alla fine del secolo, i fisici avrebbero identificato negli elettroni (1897).
Sebbene, intorno agli anni ’50, il clima generale di restaurazione politica avesse rischiato di essere accompagnato da una restaurazione chimica che cercava eliminare il concetto di atomo, il primo Congresso Internazionale di Chimica, tenuto a Karlsruhe nel 1860, aprì la strada alla chiarificazione delle teorie corpuscolari, definendo e distinguendo i concetti di elemento, atomo e molecola. Subito dopo, la scoperta del riprodursi periodico della proprietà degli elementi, giustificata mezzo secolo dopo dalla formulazione delle configurazioni elettroniche, misero la Chimica nella condizione unica di stabilire autonomamente un criterio oggettivo per la classificazione delle sostanze che studia. Protagonista di questo Congresso, e ispiratore della legge periodica degli elementi, fu un chimico palermitano, Stanislao Cannizzaro, che, proprio per il valore di scienziato dimostrato in quella occasione, fu chiamato a ricoprire vari uffici pubblici nel nascente stato italiano e a contribuire efficacemente al suo progresso sociale, industriale e culturale.
Alla fine del secolo, la Chimica chiuse il cerchio del suo processo evolutivo, ritornando a essere tecnologia, come era stata alle origini; mentre però allora il chimico procedeva al seguito del tecnico per aiutarlo a capire il funzionamento delle procedure e sostituire con principi le regole empiriche, per migliorare la qualità del prodotto e la ricaduta economica, adesso era il chimico a tracciare la strada e a mettere a punto o migliorare le procedure, che poi il tecnico avrebbe convertito in processi industriali, per preparare nuovi prodotti che sostituissero, in maniera conveniente, quelli naturali. Tra gli innumerevoli contributi che la Chimica diede allo sviluppo industriale, basti qui ricordare quello nel campo delle sostanze coloranti di sintesi che, tra l’altro, ebbero un ruolo di primo piano nella storia dell’Arte, offrendo ai pittori del XIX secolo una tavolozza di colori così ricca da consentir loro di mettere in atto concezioni stilistiche e tecniche innovative e rivoluzionarie. Esse, infatti, senza il supporto di colori nuovi (sia per sfumature che per stabilità e resa), sarebbero rimaste pure speculazioni, e non avrebbero potuto trasformarsi nei capolavori che tutti ammiriamo.
La Chimica, da scienza ancillare, ha fatto molta strada: essa è ancora oggi al servizio delle altre scienze, ma il suo ruolo è ormai fondamentale. Come per la Fisica, anche i prodigiosi progressi compiuti dalla Biologia nel Novecento sono in parte basati sulle teorie e sulle tecniche proprie della Chimica, che continua, nella sua ambigua posizione, ad avere uno specifico campo di azione, ma riesce a giocare un ruolo strategico e determinante in svariati campi del sapere e della tecnologia. La Chimica, una scienza nata per dare l’immortalità agli uomini, secondo i progetti degli alchimisti mistici, è diventata scienza guida, ma ne paga lo scotto, perché è accusata di procurare la morte, visto che le si attribuisce la responsabilità dell’uso scorretto delle sue conquiste. Il suo ruolo salvifico si incarna nella vicenda umana di Primo Levi che trova in essa, non solo il mezzo per sopravvivere fisicamente nell’infermo di Auschwitz, ma anche un motivo per trarsi fuori dall’abbrutimento morale e psicologico, nel quale l’avrebbe certamente trascinato la permanenza nel campo di concentramento [4].
I. Asimov, Breve Storia della Chimica, Zanichelli, Bologna, 1994
P. Ball, Colore, una biografia. Rizzoli, Milano, 2002
O. Sacks, Zio Tungsteno, Adelphi, Milano, 2002
P. Strathern, Mendeleyev’s dream, Penguin Books, Londra, 2000